Essi vivono!

Nell’attesa di tornare al nostro appuntamento settimanale a Seriate abbiamo pensato di farvi compagnia con alcune proposte di visione.

Si tratta di rassegne già organizzate che non abbiamo potuto proporvi, film per i quali avevamo scritto qualche pensiero che desideriamo condividere almeno in forma virtuale, e film che probabilmente non proietteremo mai, ma che potreste considerare dei consigli di visione. Questa settimana vi proponiamo la rassegna:

I quattro dell’Oca selvaggia

Presidente, Vice-Presidente, Segretario e Tesoriere concludono il ciclo di queste 10 settimane di rassegne virtuali proponendo un ultimo quartetto di film che nulla hanno a che fare l’uno con l’altro. Carta bianca totale, ciascuno ha pensato autonomamente a un film e ha scritto un commento, più o meno lungo. Vengono presentati seguendo il rigoroso ordine ascendente delle cariche associative.

Dachra (A. Bouchnak, Tunisia, 2019)

Martedì 10 marzo 2020.

Sono a Tunisi da poco più di un mese. L’emergenza covid-19 in Italia è già scoppiata, qui sta arrivando. Domani sarà l’ultimo giorno di lezioni prima della chiusura anticipata di tutte le scuole di ogni ordine e grado in vista delle vacanze primaverili. Oggi è l’ultimo giorno in cui i cinema sono aperti, e il prossimo film che vedrò in sala non ho idea di quando sarà.

Il mio livello linguistico è scarso, mi esprimo molto male e in questo mese e mezzo ho conosciuto pochissime persone. Vado al cinema tutte le sere, la cineteca di Tunisi ha una programmazione molto ricca, ed è una routine che amo molto. Ho accuratamente scelto un appartamento che fosse vicino alla cineteca per poterci andare a piedi.

Il martedì è il giorno che preferisco, perché ci sono in programma i film tunisini. A volte sono senza sottotitoli, ma un ragazzo che lavora lì mi avvisa quando ci sono i sottotitoli, e nelle settimane precedenti, ascoltando pazientemente le mie domande disarticolate, mi ha consigliato di venire a vedere Dachra, il film in programmazione oggi, primo horror della storia del cinema tunisino, che è uscito nella sale qualche mese fa e ha avuto grande successo (notizia di questi giorni è che in giugno verrà programmato su Netflix. Al momento lo si può trovare su una piattaforma di film on-line che si chiama Artify, il cui accesso è esclusivamente riservato alla Tunisia, purtroppo. E mi domando quale sarà la politica di Netflix a riguardo).

Mi scuso per le note biografiche di contorno, ma le ritengo essenziali per spiegare i motivi che mi hanno spinto a proporre questo film.

L’esistenza stessa dell’associazione Essi Vivono si nutre della consapevolezza che, pur essendoci molte possibilità di vedere film in generale (rispetto anche solo a vent’anni fa inimmaginabili) le occasioni per vedere un certo tipo di cinema sono abbastanza ridotte. Vogliamo vedere dei film non stabiliti necessariamente dai canali di distribuzione tradizionale, e vederli senza dover necessariamente trasferirsi in una grande capitale europea per frequentare la programmazione delle cineteche più prestigiose del mondo, ma poterlo fare anche a Seriate, coi mezzi che abbiamo – che comunque non sono pochi, e sono pubblici e gratuiti, cosa che è sempre bene ricordare.

Da quattro anni e mezzo proponiamo film in lingua originale, pratica in Italia ancora molto marginale, e cerchiamo di scegliere dei film che, pur presenti nel catalogo dei dvd del sistema bibliotecario della provincia di Bergamo, spesso sono ignoti o poco considerati, oppure sono dei classici da riscoprire. Nessuna pretesa: solo la volontà di condividere una passione e un percorso di ricerca comune.

Nel corso di questi anni sono affiorate nuove esigenze e nuovi interrogativi.

Uno dei quali, sempre discendente dalla questione della distribuzione, riguarda la cinematografia di nazioni, come la Tunisia, a noi completamente ignote (le ragioni per le quali in Italia manchi o sia estremamente rara un’attenzione alla cinematografia extra europea e extra statunitense sono svariate e potrebbero sfociare in un discorso troppo ampio per poterne parlare in questa sede. Mi limito a dire che in ogni caso, l’intento non è celebrare un cinema nazionale in quanto tale, anzi, ma ritenere che il prodotto cinematografico possa, proprio per il fatto d’essere “prodotto” essere a disposizione di tutti con delle logiche un po’ diverse rispetto a quelle cui siamo abituati).

Quindi, tornando alle note biografiche, l’idea proporre Dachra è in primo luogo frutto di una scelta volta a presentare un film che forse in Italia non arriverà mai sugli schermi, nonostante sia stato il film di chiusura della Settimana Internazionale della Critica al Festival di Venezia 2018.

In più, il film ha alcuni importanti meriti.

Primo lungometraggio del regista (nel 2018 34enne) Abdelhamid Bouchnak, che si è occupato anche di sceneggiatura e montaggio.

Un gruppo di tre studenti di giornalismo decide, dopo aver ricevuto come compito quello di girare un video reportage, di approfondire le indagini su un caso vecchio di venticinque anni, quando una donna venne ritrovata sgozzata e agonizzante ai bordi di una strada. Nessuno, dopo l’interesse iniziale, si decise a studiare il caso, e la donna venne rinchiusa in manicomio. Dopo aver incontrato tramite non pochi sotterfugi la donna – che è molto aggressiva e ha staccato nasi e orecchie a morsi a molti infermieri – i tre si inoltrano fuori città, in un bosco impervio, per cercare un villaggio (da cui il titolo, dachra) misterioso che nasconde molti spaventosi segreti.

All’inizio del film il professore del corso che incarica gli studenti di svolgere il loro lavoro di reportage li esorta a seguire nuovi percorsi e a non parlare sempre della Rivoluzione.

La peculiarità del film sta nel fatto di presentarsi come un film di genere – cosa per altro abbastanza rara per il poco che conosco del cinema nordafricano – , nella doppia forma di mockumentary e film dell’orrore. Il regista decide di misurarsi col genere, e lo fa nella piena consapevolezza dei suoi illustri precedessori (sono presenti diverse conclamate citazioni ad altri horror movie, primo tra tutti The Blair Witch Project), ma opponendo uno sguardo assolutamente originale, che ci mostra una Tunisia sconosciuta (dove è stato girato il film? Non sono in grado di rispondere a questa domanda), e al tempo stesso molto familiare, perché, come spesso capita coi film di genere, è l’occasione per parlare della realtà raccontando una storia.

Falling Angels, ovvero Angeli perduti (Wong Kar Wai, Hong Kong, 1995)

Due episodi girati per il precedente Hong Kong Express, ma poi scartati per evitare un’eccessiva lunghezza, vengono ampliati e sviluppati da Wong Kar Wai, diventando un film a sé. I protagonisti delle due storie che scorrono parallele, sfiorandosi e intrecciandosi casualmente, sono un killer (Ming), la sua ex socia (Agent), la sua compagna (Punkie), Ho, un uomo rimasto muto per aver mangiato ananas in scatola avariato (citazione di Hong Kong Express, dove uno dei protagonisti cercava nelle scatole di ananas a breve scadenze le residue speranze di un amore perduto), che vive di espedienti e ama trascorrere clandestinamente le notti all’interno di negozi chiusi e Cherry.

Questi angeli caduti, e non perduti come recita il titolo italiano, errano freneticamente per una metropoli caotica, satura di persone, cose e situazioni, costretti a muoversi a terra, senza sapere né potere volare. Solitudini metropolitane in cui il desiderio d’amore, disperato e implacabile, si nutre di incomunicabilità.

Immagine opache, distorte, filtri colorati, angolazioni sghembe, uso insistito del grandangolo: lo spazio e la percezione si disarticolano rimodulando lo sguardo, riflettendo la materia e i ritmi che animano la metropoli e le traiettorie esistenziali dei protagonisti.

ЛЕВИАФАН (Leviathan), Andrey Zvyagintsev, Russia, 2014

In una remota cittadina affacciata sul mare di Barents, nel nord della Russia, si consuma lo scontro tra il ‘singolo’ – Kolia, un ex-militare impulsivo e ostinato, alle prese con il problematico rapporto tra il figlio adolescente e la seconda moglie – e il ‘potere’, incarnato nella figura senza scrupoli del sindaco locale.

Kolia lotta per mantenere il suo precario posto nel mondo, conquistato palmo a palmo, costruito pezzo per pezzo: la casa e il terreno in cui vive con la sua famiglia– ‘correlato oggettivo’ dello sforzo e della fatica che la vita gli ha richiesto – entrano nelle mire speculative del sindaco, alle cui spalle si erge la regia ipocrita della Chiesa.

Il paesaggio che fa da sfondo alla vicenda – uno sfondo la cui presenza è però oscuramente dominante – è una costante muta ed ipnotica, dalla quale non si può attendere alcuna speranza, alcuna via di uscita.

Il cielo e il mare si uniscono circolarmente all’inizio e alla fine del film per opprimere Kolia, ‘figura’ del Giobbe biblico immersa nelle contraddizioni della Russia contemporanea, stretta nel gelido abbraccio della politica con l’autorità spirituale.

Il Leviatano evocato dal titolo, il mostro marino simbolo della potenza divina e l’incarnazione del sovrano assoluto secondo il filosofo inglese Hobbes, ha ormai perso la sua origine (il Creatore) e il suo scopo (il mantenimento della pace): sopra Kolia – e sopra noi spettatori – rimane solo un’oppressione nuda e disperata, impronta ombrosa del potere.

Los Angeles Plays Itself (Thom Andersen, Stati Uniti, 2003)

Raro esempio di videosaggio, Los Angeles Plays Itself (Thom Andersen, 2003), indaga i modi attraverso i quali la città di Los Angeles è stata presentata dal cinema. Composto quasi esclusivamente da spezzoni di film, Los Angeles Plays Itself nasce da una lezione tenuta da Andersen presso il California Institute of the Arts. Nel corso della lezione Andersen presentava le proprie obiezioni nei riguardi della versione cinematografica di L.A. Confindential. Dalle critiche mosse a lezione al film di Curtis Henson, Thom Andersen si è fatto prendere la mano e, con la complicità della montatrice Seung-Hyun Yoo, ne ha cavato un viaggio lungo tre ore nella Los Angeles cinematografica. Il risultato è un documento visivo di prima grandezza scandito in tre capitoli preceduti da un breve prologo.

Nel primo capitolo, The City as Background, Andersen mette in fila una lunga serie di momenti cinematografici dove Los Angeles viene utilizzata come fondale per riprese in esterni. I film possono essere indifferentemente ambientati a Los Angeles (inclusa una Los Angeles del futuro, vedi Blade Runner), Chicago, New York, o altrove. Per Hollywood si tratta di una questione di economia: la città è – è sempre stata – a disposizione dell’industria cinematografica. Non c’è quasi edificio o pezzo di terra, infatti, che a Los Angeles non sia accompagnato da un cartello con stampigliato “Filming location”, segue numero di telefono. Sarebbe curioso indagare sulle attività e le aspettative di questi lenoni del paesaggio urbano, che si celano dietro annunci e recapiti telefonici.

Andersen concentra le sue critiche verso la città usata come fondale lungo due crinali. Percorrendo il primo il regista non nasconde, da losangelino, il proprio disprezzo nei riguardi delle notevoli libertà geografiche che non di rado infestano le opere cinematografiche da lui analizzate. Alla Continuity (termine che indica la coerenza nell’aspetto e nello sviluppo di eventi, ambienti, situazioni e personaggi presenti nel film), Andersen sostituisce un termine ancor più stringente, ovvero quella che lui chiama una “geografia letterale” della città, individuando un film campione di questa rappresentazione letterale dello spazio: il film di serie B Rollercar – Sessanta secondi e vai! Anche senza aderire alla pignoleria di Anderson, è indubbio che il suo discorso abbia una certa forza. La Continuity è quantomeno traballante quando le uscite di emergenza di una pista da pattinaggio in periferia si aprono su Piazza Fletcher Bowron, in pieno centro (Il giustiziere della notte 4). O se lavoratori precari o con stipendi non poco più elevati del minimo salariale si possono permettere di affittare case sulle colline o in riva al mare, notoriamente tra le più care di Los Angeles.

Passeggiando lungo il secondo crinale Andersen incontra quella che lui definisce una delle maggiori glorie della città, ovvero l’architettura residenziale in stile modernista. Hollywood, dice Andersen, ha fatto di tutto per denigrarla, ora distruggendo uno a uno i migliori risultati del modernismo architettonico (vedi per tutti Arma letale 2), ora facendone costantemente le dimore di gangster, pornografi, criminali di ogni sorta (vedi almeno Il grande Lebowski e L.A. Confidential). Meravigliose le storie cinematografiche della Ennis House di Frank Lloyd Wright (da Il giorno della locusta a Blade Runner) e del Bradbury Building (da La fiamma del peccato ad, ancora una volta, Blade Runner).

Suspicion (Il sospetto), A. Hitchcock, Stati Uniti, 1941, film che dà il titolo alla rassegna

I quattro dell’Oca selvaggia (The Wild Geese), A. V. McLaglen, Regno Unito – Svizzera, 1978, film che dà il titolo alla rassegna

The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti), A Hitchcock, Stati Uniti, 1955, 99'

Dachra, A. Bouchnak, Tunisia, 2019

 

The Talk of the Town (Un evaso ha bussato alla porta), G. Stevens, Stati Uniti, 1942, 117'

Duo luo tian shi – Fallen Angels (Angeli perduti), Wong Kar-Wai, Hong Kong, 1995

 

The Fallen Idol (Idolo infranto), C. Reed, Regno Uniti, 1948, 95'

Leviathan, A. Zvjagincev, Russia, 2014

 

In a Lonely Place (Il diritto di uccidere), N. Ray, Stati Uniti, 1950, 94'

Los Angeles Plays Itself, T. Andersen, Stati Uniti, 2004

 

Il secondo capitolo indaga la città come personaggio (The City as Character). Se sono stati i romanzieri Raymond Chandler e James M. Cain, con le loro storie hard-boiled, a promuovere Los Angeles a personaggio letterario, toccherà al Billy Wilder de La fiamma del peccato (non a caso tratto da un romanzo di Cain, e con Chandler alla sceneggiatura) fare altrettanto per il cinema. La Continuity è rispettata, anche per un pignolo come Andersen. La città è ritratta con pochi, sapienti tratti: la stazione dei treni Glendale in notturna, un angolo di strada tra quelle che un tempo erano Vermont e Franklin, la facciata del Jerry’s Market su Melrose, e infine la casa in stile colonico (spagnolo), dimora di Barbara Stanwyck. Anche gli interni, pur girati in studio, rispondono a quella sorta di “principio letterale” tanto amato da Andersen. Dai cattivi da cartolina di cui sopra, che occupano in pianta stabile le architetture moderniste, Wilder passa al “petty bourgeois good taste” della famiglia Dietrichson. Il finto antico della casa e l’insignificante buon gusto piccolo borghese degli arredi non fanno che riflettere “la disonestà delle vite lì vissute”.

Dai toni cupi del noir si passa in seguito a quelli più luminosi del secondo dopoguerra, e la città prende a espandersi, a mostrare i nuovi sobborghi residenziali creati per reduci, lavoratori, nuove famiglie, le stesse famiglie che metteranno al mondo quella Gioventù bruciata così bene anticipata da Nicholas Ray. Assaggio di “teen noir”, il film di Ray vede un tormentato James Dean vagare attorno all’osservatorio Griffith. Il noir, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. E finisce per piazzarsi in salotto con quello che potrebbe a tutti gli effetti essere considerato uno dei suoi canti del cigno, ovvero Un bacio e una pistola, un film letterale che passa in rassegna una serie di ectoplasmi del consumo: stazioni di benzina, ristoranti drive-in, cinema drive-in, stadi di baseball, tutti fantasmi che il capitalismo soleva posizionare nei centri urbani e che ora, se ancora esistono, vengono dislocati in periferia, a ridosso delle strade a scorrimento veloce. Per non parlare di interi quartieri, caduti sotto la scure della riqualificazione. Memorabile il passaggio che Andersen dedica a Bunker Hill, il quartiere popolare dove Robert Altman decide di far risiedere il suo Philip Marlowe ne Il lungo addio. Ancora Chandler, dunque. E a Chandler vale la pena di ricorrere un’altra volta, per richiamare un paio di notevoli paragrafi del suo racconto Il re in giallo, che ben descrivono la Bunker Hill della fine anni ’40:

“Court Street era la città vecchia, la città degli italiani, la città dei balordi, la città degli artisti. Si estendeva su tutta la cima di Bunker Hill e ci si poteva trovare di tutto e di più, dai transfughi del Greenwich Village ai gangster in fuga, dalle signore pronte a passare la serata con chiunque, ai clienti del sussidio della contea intenti a litigare con sciatte affittacamere in splendide case antiche con tanto di porticati d’epoca, pavimenti in legno e scale con immense ringhiere di quercia bianca, mogano e noce circasso.

Un tempo era stato un bel quartiere, Bunker Hill, e dei suoi giorni di gloria rimaneva ancora la curiosa, piccola funicolare a rotaia, chiamata il Volo dell’Angelo, che da Hill Street si arrampicava su e giù lungo un pendio di argilla gialla”.

E del bel quartiere di Bunker Hill non rimane altro che la piccola funicolare, smantellata nel 1969 e rifatta nel 1996, a mezzo isolato dalla originaria, a uso e consumo dei turisti. Per il resto l’attuale Bunker Hill è il fondale ideale per un film post-apocalittico, come 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra. Deve esserci qualcosa nel romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda che spinge i registi a spostare l’azione dalle villette di periferia, dove si muove il Robert Neville del romanzo, a quartieri progettati a tavolino: l’architettura postmoderna della nuova Bunker Hill visibile in 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra, è stata preceduta dal razionalismo dell’EUR, dove era stato ambientato un altro film tratto da Io sono leggenda, L’ultimo uomo della Terra. Secondo Andersen il miglior film su Bunker Hill rimane The exiles, piccolo e misconosciuto capolavoro di Kent MacKenzie, gemma del Direct Cinema statunitense.

Ma sono i registi stranieri, si potrebbe dire i turisti della cinematografia, ad aver dato il meglio nel tentativo di fare di Los Angeles un personaggio. Andersen li divide in highbrow e lowbrow turist, ovvero in intellettuali e senza pretese (o volgari). I secondi preferiscono la più pittoresca San Francisco a Los Angeles. Tra di loro – si parla sempre del loro modo di filmare Los Angeles – Andersen annovera Alfred Hitchcock, Woody Allen, John Boorman e Tony Richardson. Tra i primi invece troviamo alcuni registi europei, come Jacques Deray, Jacques Demy e, ovviamente, l’Antonioni di Zabriskie Point.

Tocca a un altro europeo, Roman Polanski, aprire il terzo e ultimo capitolo, The City as Subject. Los Angeles si scopre razzista, corrotta, dominata da lobbies, affaristi e profittatori di ogni genere. I fatti di Watt del 1965 mettono a nudo le fragilità di Los Angeles. Gli anni del boom sono ormai alle spalle, e non riescono più a coprire i problemi di inquinamento, traffico, penuria d’acqua e distruzione dei terreni agricoli che perseguitano la città degli angeli. Secondo Andersen Los Angeles, città senza storia, è afflitta nondimeno da una insistente nostalgia: “Los Angeles è stata stata un posto migliore, tanto tempo fa”. L’emergere di una coscienza cittadina si accompagna a una riflessione orientata verso il passato, spesso verso il passato recente, con lo scopo di individuare il momento in cui le cose hanno cominciato ad andare male. Tutto sarebbe stato diverso se solo in quel momento… Il peccato originario, secondo Polanski, è da ricercarsi nelle cosiddette Water Wars, quelle guerre dell’acqua che vissero la loro fase acuta lungo i primi tre decenni del Novecento. Nel suo Chinatown Polanski riscrive liberamente quelle vicende, spostandone anche in avanti i limiti temporali. Per una ricostruzione più attendibile e rigorosa si può leggere il capolavoro di Mike Davis, Città di quarzo. Più delle critiche di carattere storico mosse da Andersen – in fondo quella di Polanski è un’opera di finzione – sono interessanti alcune delle conclusioni che trae. Il film, nonostante il suo carattere di finzione, è stato spesso visto come una drammatizzazione di eventi storici o, peggio, come una specie di storia segreta di Los Angeles, la sua vera – e nascosta – storia. Chinatown farà da apripista a molti film che vorranno raccontare la vera Los Angeles di un certo periodo storico, svelando ciò che le versioni pubbliche cercano di occultare. Il tutto condito da una buona dose di rassegnazione: i potentati che dominano Los Angeles sono intoccabili. Sono loro i vincitori, loro scrivono la storia. Per Andersen Chinatown risulta interessate per altri motivi. Su tutti la difficoltà di muoversi a Los Angeles senza macchina. Joan Didion diceva che a Los Angeles “Nobody walks”. Ovviamente sono in tanti a camminare a Los Angeles. Ma forse non appartengono alla classe sociale con la quale Didion era abituata ad avere a che fare. Però è vero che per Jake Gittes, il detective di Chinatown, la macchina è indispensabile. Quando è costretto a farne a meno risulta essere sempre un paio di passi indietro, sempre all’inseguimento. Come ogni buon detective perdente, si dirà. Forse, ma almeno non gli toccava arrivare in ritardo con il fiato corto.

Se a New York si cammina o si prendono i mezzi pubblici, a Los Angeles o si guida o si resta a piedi (Un giorno di ordinaria follia). Vale anche per i poliziotti. Nel newyorkese La città nuda di Jules Dassin il lavoro d’indagine è prevalentemente un lavoro di gambe. Nel losangelino Chi ha incastrato Roger Rabbit? Eddie Valiant, dopo un breve viaggio in tram, non si muove che in macchina. E anche se alla fine sventa il piano del malvagio giudice Morton, che ambisce a costruire una gigantesca autostrada proprio nel bel mezzo di Cartoonia, altre macchinazioni simili andranno a buon fine, come quella raccontata in L.A. Confidential, un altro film ambientato nel passato, un’altra storia segreta, altre menzogne, altre sconfitte. Altri poliziotti. Poliziotti violenti, psicopatici, brutali. Il LAPD non gode certo di grande fama. Innumerevoli i film che mettono in scena poliziotti che oltrepassano i limiti, da Nails a Heat – La sfida, da Arma letale a Vivere e morire a L.A., fino ad arrivare al loro contrario, allo sterminatore di poliziotti, lo Schwarzenegger di Terminator.

A partire dagli anni ’80 il centro di Los Angeles cresce in verticale (il Wells Fargo Center verrà completato nel 1983), e la borghesia e i liberi professionisti si spostano in quei sobborghi residenziali in espansione messi in scena da Robert Altman in America oggi. I protagonisti, per evocare un altro film di Altman, si muovono in macchina, come lo Steve Martin di L.A. Story, che dialoga apertamente (e filosoficamente) con un cartello stradale luminoso. A questo cinema dei guidatori Andersen contrappone un cinema dei camminatori, degli esiliati da quella Los Angeles cinematografica che pretende di muoversi solo in macchina. The Exiles fece da apripista. Dovranno passare una quindicina d’anni prima che possa passare idealmente il testimone ai registi del movimento L.A. Rebellion, anche detto Los Angeles School of Black Filmmakers, composto da giovani registi africani o afroamericani, spesso studenti UCLA. I membri del movimento rifiutano generi e stereotipi hollywoodiani e guardano a modelli d’oltreoceano: il neorealismo italiano, il nuovo cinema europeo, il film d’arte e di sperimentazione. Andersen cita Bush Mama di Haile Gerima, Killer of Sheep di Charles Burnett e Bless Their Little Hearts di Billy Woodberry. Il loro intreccio di neorealismo e cinema d’arte apre nuove prospettive su Los Angeles. La camera segue d’appresso i personaggi, cammina con loro, prende tram, treni e autobus. Si ferma fuori dalle case e dai parchi. Entra nelle case popolari. Osserva la brutalità della polizia dalla parte delle vittime ed esclusivamente delle vittime. Mette in scena la crisi delle famiglie nere, fondate su lavoro salariato spesso poco qualificato, ora appannaggio della forza lavoro migrante. Auspica alleanze tra gli esiliati. Si lascia andare a flussi di coscienza per immagini, mette in scena un tempo e uno spazio della memoria, del ricordo, della fantasticheria, delle molteplici attività della coscienza. Possibilità di un cinema altro. Distant voices, still lives.

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