DOGMAN
Down in Mexico…
Essi vivono!
Nell’attesa di tornare al nostro appuntamento settimanale a Seriate abbiamo pensato di farvi compagnia con alcune proposte di visione.
Si tratta di rassegne già organizzate che non abbiamo potuto proporvi, film per i quali avevamo scritto qualche pensiero che desideriamo condividere almeno in forma virtuale, e film che probabilmente non proietteremo mai, ma che potreste considerare dei consigli di visione. Questa settimana vi proponiamo la rassegna:
Dogman
Il cinema mette in scena il mondo animale.
Lo fa in molti modi, aderendo alla funzione e al desiderio di evasione, di intrattenimento e di stupore. La natura viene addomesticata all’occhio della macchina da presa.
Quando si tratta del cane, il vantaggio rappresentato dal fatto di filmare un animale addomesticato è notevole, la tecnica stessa dell’addomesticare è a servizio del cinema. Non è “la natura selvaggia” a essere messa in scena, è qualcosa di molto più controllato e controllabile. E in più, parlare del cane significa, per sineddoche, parlare del rapporto tra uomo e natura addomesticata, della natura cui viene data parola (e infatti ci sono anche molti film dove i cani parlano, per esempio). Molto spesso è l’occasione per riflettere sulle caratteristiche positive stereotipate che vengono attribuite alla specie animale, in contrasto con l’uomo: il cane diventa simbolo di una relazione di tipo diversa, in alcuni casi auspicabile, tra gli essi umani, che però viene negata e ribaltata. Il cane è intelligente, il cane non tradisce né mente, il cane è obbediente e fedele.
Umberto D
Film di Vittorio de Sica, 1952. Capolavoro assoluto, purtroppo meno conosciuto rispetto ad altri titoli dello stesso regista e del periodo.
Quanto di più opposto a Amores Perros (vedi dopo) per quanto riguarda la narrazione, che qui è assolutamente piana e lineare: Umberto è anziano, povero e solo. Vive con il suo cagnolino Flaik in un pensionato dove è trattato malissimo dalla padrona di casa, che lo minaccia di sfratto se non paga gli arretrati.
Nel corso del film Umberto prova diverse strade per cercare denaro, ma tutte risultano fallimentari, fino allo sconforto estremo.
Il film, di rara bellezza, mostra con una maestria e una notevole anti retorica lucidità il progressivo inesorabile cammino verso la rassegnazione e la sconfitta di un uomo che non sa non può rinunciare alla sua dignità, ma che è costretto a spartire la sua vita in un ambiente dove i suoi simili sono tutti, senza troppe distinzioni, meschini, brutali, egoisti, indifferenti. La relazione uomo-cane è l’unica che si salva in un film che presenta relazioni umane orrende. L’umanità del protagonista viene vista, riconosciuta, testimoniata solo dal suo cane.
Amores Perros, opera prima di Inarritu e primo film in collaborazione con lo sceneggiatore Arriaga (seguiranno 21 grammi e Babel, tutti accomunati dalla medesima struttura a intreccio), racconta tre diverse storie, suddivise in tre capitoli intitolati Octavio e Susana, Daniel e Valeria, El Chivo e Maru.
Tre coppie di personaggi che vivono esistenze completamente diverse e parallele. Le loro vicende si incrociano per caso a più riprese, ma non hanno nulla da spartire se non la presenza di cani.
Il connettore delle tre storie è un incidente stradale.
Nella prima, Octavio è un ragazzo che vive con sua madre, Rodrigo, suo fratello, Susana, sua cognata e il loro bambino di pochi mesi. Octavio vorrebbe scappare di casa con Susana, e raccoglie soldi sfruttando il suo cane in combattimenti clandestini dove vince parecchie scommesse. Rimane coinvolto in un grave incidente.
Nella seconda, Valeria è una modella affermata che va a vivere col suo amante, appena separato dalla moglie. Subisce un grave incidente ed è costretta sulla sedia a rotelle. In più, il suo cagnolino finisce sotto le tavole del pavimento di casa; segue drammatica ricerca. Il cane incastrato e sparito diventa la metafora dello sconforto esistenziale della modella.
Nella terza, El Chivo è un barbone ex-militante politico, che aveva abbandonato moglie e figlia per combattere. La sua storia chiude un cerchio. Trova il cane di Octavio nell’incidente, lo salva e decide di cambiare vita, lasciandosi alle spalle il passato e cercando di riconciliarsi, seppure a distanza, con la figlia ormai diventata grande.
Amores Perros è un film difficile da riassumere, ma che riveste un duplice interesse: in anni non sospetti si sperimenta una tecnica che poi diventerà di moda (ellissi, flashback strutturali, intrecci, anticipazioni…e del resto nulla di nuovo, sono tutte tecniche narrative ampiamente esplorate nella storia del cinema ben prima), e che diventerà la firma di Arriaga, il tratto distintivo di una certa tipologia di film; e d’altro canto, l’interesse per Amores Perros sta nella rappresentazione, attraverso il cane, delle diverse classi sociali e quindi anche dei diversi tipi di relazione tra uomo e cane (il cane come mezzo per emanciparsi, per far soldi, il cane randagio, il cane come surrogato del proprio dolore o della propria nostalgia).
Cane bianco (White Dog), film del 1982 di Samuel Fuller, tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary. Il “cane bianco” del titolo è un cane addestrato ad attaccare, e uccidere, le persone di colore. Emblema del razzismo statunitense degli anni ’60 del Novecento, il cane bianco in questione viene tratto in salvo da un’attrice, Julie Sawyer, e da questa portato presso un centro di addestramento, dove Keys, un giovane addestratore nero, prova a “riprogrammarlo”, eliminandone l’addestramento ricevuto e “curandolo” così dal razzismo. Diretto da Fuller con mano pesante, Cane bianco scopre subito tutte le sue carte, colorando fin dalle prime battute quello che doveva essere un dramma sociale con le tinte appariscenti dell’horror e del thriller. Il processo di cura del cane bianco segue una piega prettamente comportamentista, a Keys di fatto non interessano tanto i processi interiori del cane bianco (intesi come i processi interiori del razzista), quanto i suoi comportamenti in reazione all’ambiente che lo circonda: il contro addestramento mostra come sia possibile, con gli stessi metodi, creare il razzista e l’antirazzista, il cattivo e il buon cittadino. Verrebbe da dire, insomma, che la “macchina per l’apprendimento” (ovvero la porta), è priva di connotazioni negative o positive, e può essere utilizzata (aperta) per instillare l’odio razziale o il suo contrario. Tutto dipende dall’addestratore, cioè dalla chiave che viene utilizzata. Del funzionamento della serratura poco importa. Il film è in fondo tutto qui. Si riduce alla domanda: riuscirà Keys (cioè chiavi) a fare in modo che la porta del cane bianco si apra dalla parte giusta? O il razzismo è un veleno che, una volta entrato in circolo, rimane ineliminabile?
Dogman, M. Garrone, Italia, 2018, film che dà il titolo alla rassegna
Umberto D., V. De Sica, Italia, 1952
Amores perros, A.G. Iñárritu, Messico, 2000
White Dog (Cane Bianco), S. Fuller, USA, 1982
Never Cry Wolf (Mai gridare al lupo), C. Ballard, USA, 1983
“Datemi una dozzina di neonati normali, ben fatti e un ambiente da me organizzato per allevarli e vi garantisco di prenderne uno a caso e di farlo diventare uno specialista del campo da me prescelto: medico, avvocato, artista, commerciante e, sì, persino accattone e ladro, indipendentemente dai suoi talenti, inclinazioni e tendenze, dalle sue capacità, o vocazioni, e dalla razza dei suoi antenati”. Così uno dei brani più citati di John Watson, tratto dal suo Il comportamentismo, edito per la prima volta nel 1924. Riuscirà Keys a essere all’altezza del maestro? Ingenuo, schematico e ampiamente criticabile, il film venne ammazzato nella culla da una serie di timori e minacce di boicottaggio: i primi albergavano nelle menti dei produttori e dei distributori, le seconde provenivano dal NAACP (National Association for the Advancement of Colored People). Tanto tuonò che alla fine piovve. Cane bianco venne ritirato dalle sale dopo solo una settimana di programmazione (e solo in cinque sale di Detroit!), causando in sovrapprezzo l’esilio volontario di Fuller, che si trasferirà in Francia, dove chiuderà la sua carriera. Cane bianco ritroverà la strada per le sale cinematografiche solo nel 1991, in occasione di una retrospettiva newyorkese su Samuel Fuller.
Potrebbe essere andata così, titola il primo capitolo di E l’uomo incontrò il cane, uno dei più fortunati libri di Konrad Lorenz. Il capitolo, una sorta di favola etologica, ipotizza le fasi attraverso le quali è avvenuta la domesticazione dei cani, tratteggiando così, con rapide pennellate, l’albero filogenetico della specie. Mai gridare al lupo (Never Cry Wolf, Carroll Ballard, USA, 1983) percorre a ritroso quell’albero e inverte i poli della favola di Lorenz: l’uomo, a contatto con i lupi, si inselvatichisce. L’ontogenesi ribalta la filogenesi, si potrebbe dire, giocando con la formulazione di un noto assioma. Tratto dall’omonimo libro dello scrittore e ambientalista Farley Mowat, Mai gridare al lupo narra la vicenda di un biologo, Tyler, spedito dal governo canadese nell’estremo nord della Nazione, con la missione di studiare i caribù, la cui popolazione è in forte declino. L’ipotesi governativa è che gli animali vengano sterminati da branchi di lupi, a Tyler il compito di confermarla o smentirla. Il biologo viene abbandonato senza alcuna preparazione in balia del rigido clima artico. Si salva solo grazie all’intervento di un inuit, Ootek. Presto Tyler incontra una coppia di lupi, che battezza George e Angelina. Tocca farsi accettare, rendersi presenza familiare, non minacciosa, e al tempo stesso rivendicare un proprio ambito d’azione, il che vuol dire delimitare un proprio territorio (e dunque riconoscere come il regno di George e Angelina tutto ciò che sta al di fuori di quel territorio). E quale modo migliore per marcare il territorio se non quello di urinare in cerchio attorno alla tenda? “Gli animali”, dice Lorenz, “non acquisiscono mai un modulo comportamentale del tutto nuovo grazie a un’ispirazione immediata, ma piuttosto grazie a nessi mentali associativi che si stabiliscono solo dopo il molteplice ripetersi di una situazione”. I litri di urina versati da Tyler per farsi accettare dai lupi sono la prova della correttezza delle affermazioni di Lorenz. George e Angelina rendono Tyler via via sempre più selvatico, o forse dal loro punto di vista lo addomesticano. Il biologo, che ormai condivide parti crescenti della propria giornata con i lupi, sarà infine in grado di dare risposta agli interrogativi governativi. Ma dell’enigma non sveliamo qui la soluzione. Lo spettatore che vorrà percorrere i sentieri del “far north” fino in fondo, e svelare con Tyler il mistero dei caribù, si troverà forse a esclamare: potrebbe essere andata così.
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