IL FIGLIO DI SAUL

Auschwitz e i membri del Sonderkommando nel 1944

Parleremo di due membri dei Sonderkommando. Il primo è rimasto lungamente anonimo, conosciuto solo attraverso la sua provenienza geografica e il suo nome di battesimo, un greco di nome Alex, e al quale solo recentemente si è riusciti a dare un nome, a strutturare una biografia; il secondo è un personaggio di finzione, anch’esso membro del Sonderkommando di Auschwitz II Birkenau, anch’egli conosciuto solamente tramite il suo nome di battesimo, Saul.

Ad Alex, come dicevo, è stato dato un nome: si tratterebbe di Alberto Errera, nato il 15 gennaio 1913 a Larissa; membro attivo della resistenza greca sotto il nome cristiano di Alex (Alekos) Michaelides, fu arrestato nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1944, deportato ad Auschwitz-Birkenau il 9 aprile e selezionato nel Sonderkommando del Crematorio V come preposto ai forni. Ebbe un ruolo decisivo nella preparazione della rivolta dei prigionieri del 7 ottobre 1944, ma morì il 12 agosto 1944, prima di potervi partecipare, dopo aver colpito una SS con una vanga durante un operazione di riversamento delle ceneri nel fiume Vistola. La rivolta del 7 ottobre avviene a seguito di un tentativo di liquidazione drastica del Sonderkommando, che a fine agosto contava circa 874 membri, dei quali 200 vengono uccisi a fine settembre. Venuti a conoscenza di una prossima, ulteriore “liquidazione”, i membri dei Sonderkommando dei crematori IV e II si rivoltano e nel primo pomeriggio del 7 ottobre incendiano e danneggiano pesantemente il Crematorio IV. Tra 7 e 8 ottobre la maggior parte degli organizzatori della rivolta viene uccisa. Rimangono in vita 212 membri dei Sonderkommando. Il 10 ottobre vengono arrestate e messe a morte tre deportate prigioniere polacche, impiegate presso una fabbrica di munizioni e accusate di aver fornito l’esplosivo ai rivoltosi e un’impiegata presso il magazzino degli effetti personali, sospettata di aver consegnato il materiale. Un consistente gruppo di prigionieri, circa 250, riesce a fuggire e a raggiungere un granaio situato nei pressi del vicino villaggio di Rajsko, dove vengono però raggiunti e uccisi dai tedeschi.

Prima di tornare a concentrarci su Alex, però, una breve premessa. Chi erano i membri dei Sonderkommando? Quali i loro compiti? Utilizzo le parole di Primo Levi, da I sommersi e i salvati, p. 36. “Con questa denominazione debitamente vaga, “Squadra Speciale”, veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava mantenere l’ordine tra i nuovi arrivati […] che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliere i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovrintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi.

Queste squadre speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi, da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori. L’ultima squadra, nell’ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento.”

 

 

Immagini malgrado tutto

Seguiamo da qui in avanti e molto spesso citando direttamente le sue parole, il testo di Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto. La prima parte del testo venne pubblicata per la prima volta nel 2001, all’interno del catalogo di una mostra dal titolo Memorie dei campi. Fotografie dei campi di concentramento e di sterminio nazisti (1933-1999). Facile capire come, tra i prigionieri di Auschwitz, i membri del Sonderkommando furono quelli cui le SS vollero sottrarre a ogni costo la possibilità di testimoniare, tanto che la loro esistenza doveva restare coperta da un segreto assoluto, i membri del Sonderkommando non dovevano avere alcun contatto con gli altri detenuti e nemmeno con le SS non “iniziate”.

La preoccupazione principale dei membri del Sonderkommando era, secondo uno dei pochi sopravvissuti, Filip Müller, quella di informare il mondo su cosa stava accadendo. Müller comincia a raccogliere, nell’aprile 1944, alcuni documenti, per affidarli a due prigionieri che avrebbe tentato la fuga (tentativo non riuscito). Altri membri decisero di affidare la propria testimonianza alla terra, sotterrando i propri scritti e proteggendoli inserendoli all’interno di gamelle. Gli scavi che, a partire dalla liberazione dei campi, hanno interessato il terreno di Auschwitz, hanno permesso di ritrovare un certo numero di scritti, i cosiddetti rotoli di Auschwitz. Questi testi, che insieme alle fotografie  di cui parleremo sono alla base del film Il figlio di Saul; questi testi, dice Didi-Huberman, sono percorsi da due ossessioni: da un lato quella della scomparsa del testimone; dall’altro il timore che la testimonianza fosse vana, perché considerata incomprensibile, insomma, la posizione della Prefazione ai Sommersi e i salvati (p. 5). Per quanto riguarda i membri dei Sonderkommando la prima ossessione era una certezza, sapevano che non sarebbero sopravvissuti per testimoniare. La loro voce, allora, si configura come una voce impossibile, come la voce dei sommersi, coloro i quali, con le parole di Levi, hanno visto la Gorgone, i testimoni integrali (Sommersi e salvati pp. 64-65).  All’incrocio di queste due impossibilità, prosegue Didi-Huberman, vale a dire scomparsa del testimone e non rappresentatività della testimonianza, sorge l’immagine fotografica. Nell’estate 1944 i membri del Sonderkommando decidono di scattare delle fotografie; nell’estate 1944 furono deportati gli ebrei ungheresi, si parla di circa 430.000 deportati tra il 15 maggio e l’8 luglio; verso la fine dell’estate finiscono le scorte di Zyklon B e, di conseguenza, gli “inetti” dei convogli furono precipitati direttamente nelle fosse ardenti del crematorio V e del Bunker 2. Compito dei membri del Sonderkommando fu quello preparare l’infrastruttura di questo massacro: scavare cinque fosse di incinerazione all’aria aperta, dietro il crematorio V; piantare le siepi utili a schermare e nascondere quanto accadeva dentro al campo (il crematorio V è situato in un campo di betulle – da qui il nome di Birkenau – che nascondono alla vista ciò che lì accade). A fronte di possibilità di evasione o rivolta ridotta ai minimi termini, la possibilità di far uscire un’immagine o un’informazione diviene la cosa più urgente. Nel 1944 i capi della resistenza polacca chiesero delle foto. Un operaio civile riuscì a far avere di nascosto una macchina fotografica. Il tetto del crematorio V venne danneggiato appositamente. Alcuni membri della squadra vennero inviati per ripararlo. Uno di loro, David Szmulewski, rimase sul tetto, a controllare le attività dei tedeschi. L’apparecchio fotografico venne nascosto in fondo a un secchio e finì nelle mani di Alex Michaelides, posto al livello inferiore. Scatta una prima serie di di due fotografie nascosto dall’oscurità dell’edificio del crematorio V. Per scattare la seconda immagine avanza leggermente, cambiando asse. L’inquadratura è più frontale e ravvicinata. Vediamo i gesti dei membri del Sonderkommando, indicativi del compito da svolgere; vediamo il fumo della fosse di incinerazione; vediamo il boschetto di betulle. Dopo aver nascosto la macchina Alex prende coraggio ed esce dal crematorio ritrovandosi dall’altra parte dell’edificio, verso sud, dove scatta altre due foto con la macchina nascosta o tra i vestiti o tra le mani. Una delle due foto mostra un gruppo di donne in procinto di entrare nella camera a gas e, sullo sfondo, il camino del crematorio IV; mentre la seconda immagine è completamente “astratta”. Dopo quindici-venti minuti al massimo Alex restituisce la macchina a David Szmulewski. La pellicola sarà nascosta in un tubetto da dentifricio e portata fuori dal campo da Helena Danton, impiegata alla mensa delle SS e arriverò, il 4 settembre 1944 nelle mani della resistenza polacca, accompagnata da una nota in cui si invita a procurare altra pellicola.

Entriamo nel cuore dell’argomentazione di Didi-Huberman. Le quattro immagini, dice, prendono di mira l’inimmaginabile e lo confutano. Anzitutto confutano l’inimmaginabile fomentato dell’organizzazione della soluzione finale (il nessuno vi crederà della Prefazione a I sommersi e i salvati). Le quattro foto sono dunque quattro confutazioni strappate al mondo senza parole e senza immagini che i nazisti volevano lasciare, un mondo di scomparsa generalizzata:

 

    • scomparsa delle psiche e disintegrazione del legame sociale, analizzata da Bruno Bettelheim;
    • scomparsa della lingua delle vittime anche attraverso quella perversione della lingua della lingua tedesca analizzata da Klemperer. Il termine sonder, per esempio, significa “separato”, “singolare”, “speciale”, oppure “strano”, “bizzarro”, viene utilizzato in espressioni come Sonderbehandlung (trattamento speciale, ovvero morte nelle camere a gas), Sonderbau (edificio speciale, ovvero il bordello del campo) e Sonderkommando (squadra speciale);
    • scomparsa degli esseri che venivano assassinati, a cui veniva negata una sepoltura, di cui non restava traccia alcuna;
    • scomparsa degli strumenti della scomparsa: le SS distruggono, nel gennaio 1945, il crematorio V;

 

  • scomparsa degli archivi: i membri del Sonderkommando sono costretti a bruciare tutti i documenti sui detenuti;

 

 

La fotografia contraddice questa volontà di scomparsa. Ad Auschwitz era ovviamente vietato scattare fotografie, il suo comandante, Rudolf Höss, emette una circolare, datata 2 febbraio 1943, che recita così: “Segnalo una volta ancora che è vietato scattare foto nei dintorni del campo. Punirò severamente coloro che non rispettano quest’ordine”. Eppure ovunque circolavano delle foto, lo stesso Höss non aveva esitato a offrire al ministro della giustizia un album di fotografie scattate nel campo. Da un lato quest’uso della fotografia sconfinava (privatamente) nella pornografia del massacro. Dall’altro l’amministrazione nazista era ossessionata dall’abitudine di registrare tutto e tendeva a fotografare tutto quanto si faceva nel campo. Ad Auschwitz entrarono in funzione due laboratori di fotografia: nel primo, alle dipendenze del “servizio di riconoscimento”, dai dieci ai dodici prigionieri gestivano i ritratti segnaletici dei detenuti politici. Le foto di esecuzioni e torture furono scattate e sviluppate direttamente dalle SS. Il secondo laboratorio, più piccolo, era quello dell’Ufficio delle costruzioni, aperto dalla fine del 1941 all’inizio del 1942, raccoglieva l’archivio fotografico delle installazioni del campo. A latere abbiamo le immagini “mediche” degli scatti provenienti dagli esperimenti di Mengele. Verso la fine della guerre i prigionieri salvarono dalla distruzione circa 40.000 scatti.

Una volta posato lo sguardo sulle fotografie, continua Didi-Huberman, non è più possibile parlare di Auschwitz nei termini dell’indicibile e dell’inimmaginabile. Secondo Giorgio Agamben parlare di Auschwitz nei termini dell’indicibile significa allontanare il campo in una dimensione di adorazione mistica, di adorazione silenziosa. Se è vero che l’orrore dei campi sfida l’immaginazione, ogni immagine strappata a quell’orrore sarà preziosa, perché in grado di darci visione anche solo di una rotella di quel meccanismo. Secondo Blanchot ad Auschwitz l’invisibile si è reso visibile per sempre.

Le quattro immagini in questione sono dunque “momenti di verità”. Ma come leggere queste immagini? Se le domandiamo troppo – tutta la verità – saremo delusi, le immagini sono inadeguate al compito: ciò che vediamo è poco rispetto a ciò che sappiamo. Alle immagini manca quella precisione che ci consentirebbe di identificare qualcuno, di comprendere appieno il funzionamento della macchina di morte tedesca. Al contrario, se le chiediamo troppo poco, le immagini rischiano di essere relegate nella sfera del simulacro o del puro puro documento, cancellandone però la loro specifica genesi. Così queste immagini, pur da tempo note, sono state oggetto di una duplice disattenzione: la prima consiste nel renderle ipertrofiche, nel farne icone dell’orrore, per farlo le immagini sono state rese “presentabili”, trasformandole completamente (le donne della fotografia 3); la seconda consiste nell’asciugare l’immagine fino a renderla mero documento, modificando la foto per accrescere il suo valore “informativo”. Le immagini della prima sequenza sono state re-inquadrate, escludendo quella massa nera che circonda la visione dei cadaveri e che, però, ci restituisce la situazione stessa, la condizione di esistenza di quelle fotografie. Sopprimendola si suggerisce che Alex ha potuto scattare quelle fotografie all’aperto e re-inquadrando le fotografie si è  – apparentemente – preservato l’aspetto informativo del documento, sopprimendone però la fenomenologia, ciò che di queste foto ne faceva un evento. Le immagini esprimono sì un difetto di informazione, eppure mostrano la necessità del gesto di Alex, la necessità di strappare quattro immagini dal campo, di strappare alla distruzione quattro fotografie, di farle sopravvivere.

 

Il figlio di Saul

Il film Il figlio di Saul esce nel 2015 per opera di un regista esordiente, László Nemes, assistente del regista ungherese Béla Tarr. Dopo aver visto il film Georges Didi-Huberman scrive al regista una lunga lettera, nella quale analizza il film. La lettera verrà poi pubblicata, nello stesso anno, sotto il titolo Sortir du noir. Ne seguiamo alcune delle argomentazioni principali, precedute dall’ovvia premessa: stiamo parlando di un film di finzione.

Secondo Didi-Huberman il film ha corso il rischio di costruire un certo realismo di fronte a una realtà storica spesso qualificata come inimmaginabile. Davanti al problema del realismo è stato adottato con fermezza un punto di vista, una presa di posizione sulle questioni delle prospettive e della giusta distanza da mantenere.

“Con il capo operatore Matyas Erdely [racconta Nemes] abbiamo voluto utilizzare la pellicola 35mm e un processo fotochimico lungo tutte le tappe di realizzazione del film. Era il solo modo di preservare l’instabilità delle immagini e dunque filmare in maniera organica quel mondo. L’obiettivo era di toccare le corde emotive dello spettatore, e ciò non era possibile farlo tramite il digitale. Tutto questo implicava una illuminazione la più semplice possibile e diffusa e obbligava a filmare con lo stesso obiettivo, il 40 mm, un formato ristretto, e non lo scope che amplia lo sguardo, di modo da stare sempre vicini al personaggio, attorno a lui”.

Così Il figlio di Saul finisce per contestare visivamente il realismo stesso che la sua messa in scena aveva meticolosamente preparato.

Il solo sguardo possibile è uno sguardo ravvicinato e di corta durata: uno sguardo costretto ad attraversare la morte, ad abbassare gli occhi al suolo. La profondità di campo è infima.

L’indistinzione non è sinonimo di disattenzione, di una mancata capacità d’osservazione, di un rifiuto di guardare le cose negli occhi, ma è la realizzazione visiva della paura. Con questo film non abbiamo a disposizione un quadro della situazione ad Auschwitz-Birkenau nel 1944; il film si accontenta d’accompagnare il lavoro, la paura e la decisione folle di un unico personaggio. Uscire dal nero, sarà allora per Saul tentare di salvare la salma del bambino dalla dissezione e dall’incenerimento; resistere all’inesistenza della morte: di qui l’esigenza, affinché la morte esista, di un rituale, di una preghiera, di un rabbino e, soprattutto, di una degna sepoltura. Atto folle per un Sonderkommando: non essere più solamente costretto a trasportare innumerevoli cadaveri, ma scegliere di trasportarne un solo morto.

La storia di Saul sembra pura follia: la follia di voler salvare un morto; la follia di volersi prendere il tempo per un rituale funebre laddove non c’è che urgenza attorno; la follia di voler trovare una terra sepolcrale all’interno di uno spazio totalitario e ultra-sorvegliato, uno spazio dove tutti gli innumerevoli morti sono integralmente ridotti in cenere e fumo. Eppure questa follia ha la struttura di un racconto allegorico/mitologico. Le peregrinazioni di Saul nell’inferno del campo di Birkenau per far uscire dal nero un solo bambino morto evocano il gesto d’Orfeo che s’inabissa negli Inferi per salvare Euridice. “Quando Orfeo discende verso Euridice, l’arte è la potenza attraverso la quale si apre la notte” (Blanchot). Fare arte sarà dunque entrare nello spazio della morte, ma affinché si apra la notte. Potremmo dire che la storia di Saul fa coincidere un elemento di racconto allegorico, di leggenda meravigliosa e memorabile, con un elemento di dolore morale e di disillusione che potremmo dire tipicamente moderno. Saul partecipa alla rivolta dei Sonderkommando, ma cerca solo di fuggire con suo figlio sulle spalle e il suo rabbino dietro di lui. La questione non è sapere se il figlio di Saul è veramente suo figlio o meno. La questione è di comprendere la volontà di Saul come il gesto del morente per eccellenza: il gesto che consiste a inventare il figlio, ad affermare costi quel che costi un legame di trasmissione genealogica.

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