EYE OF THE BEHOLDER

Down in Mexico…

Suspicion (Il sospetto), A. Hitchcock, Stati Uniti, 1941, film che dà il titolo alla rassegna

Eye of the Beholder (The Eye – lo sguardo), S. Elliott, Canada-Regno Unito- Australia, 1999, film che dà il titolo alla rassegna

The Talk of the Town (Un evaso ha bussato alla porta), G. Stevens, Stati Uniti, 1942, 117'

The Salt of the Earth (Il sale della terra), J. R. Salgado e W. Wenders, Brasile-Italia-Francia, 2014

 

In a Lonely Place (Il diritto di uccidere), N. Ray, Stati Uniti, 1950, 94'

The Elephant Man (L’uomo elefante), D. Lynch, Stati Uniti, 1980

 

The Fallen Idol (Idolo infranto), C. Reed, Regno Uniti, 1948, 95'

Persona, I. Bergman, Svezia, 1966

 

The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti), A Hitchcock, Stati Uniti, 1955, 99'

A Ghost Story (Storia di un fantasma) , D. Lowery, Stati Uniti, 2017

 

Essi vivono!

Nell’attesa di tornare al nostro appuntamento settimanale a Seriate abbiamo pensato di farvi compagnia con alcune proposte di visione.

Si tratta di rassegne già organizzate che non abbiamo potuto proporvi, film per i quali avevamo scritto qualche pensiero che desideriamo condividere almeno in forma virtuale, e film che probabilmente non proietteremo mai, ma che potreste considerare dei consigli di visione. Questa settimana vi proponiamo la rassegna:

The Eye of the Beholder

La rassegna si apre con The Salt of the Earth (Il sale della terra) documentario uscito nel 2014, diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado.

Il film è incentrato sulla vita, sia privata che artistica, di Sebastião Salgado, fotografo di fama mondiale e padre del regista, il quale lo seguirà e lo riprenderà durante i suoi ultimi viaggi.

Il protagonista del documentario è proprio lo sguardo che il fotografo indirizza attentamente verso la realtà circostante, studiando ed estraendo ciò che poi andrà a catturare per mano della fotografia.

Uno sguardo che viene seguito in silenzio e pazientemente per tutto il film e che porta alla scoperta, sia da parte del fotografo che da parte dello spettatore, di luoghi (Africa, America Latina, Amazzonia…) e persone (tribù africane, lavoratori oppressi, migranti…) il più delle volte obliati, invece, della società e confinati ai margini di essa.

L’occhio della macchina fotografica, che diventa protesi di quello umano, porta così alla luce e illumina il rimosso di un mondo raramente osservato e per questo considerato quasi inesistente.

Un mondo fin troppo osservato invece è quello del film successivo: The Elephant Man (L’uomo elefante) di David Lynch.

Uscito nel 1980 e tratto da una storia vera, questo film è una grande opera metacinematografica nella quale il regista gioca fin dall’inizio con lo sguardo dei personaggi ma anche con quello dello spettatore stesso, instaurando tra i due una sorta di parallelismo.

È una riflessione, quella che fa il regista, sull’atto di guardare quasi ossessivo sia da parte di coloro che assistono ai freaks show (ma anche del teatro anatomico del Dr. Treves) sia di noi spettatori del film, nei confronti della creatura – John Marrick.

L’attenzione è tutta concentrata sui volti, inorriditi ma anche incuriositi di un pubblico che, attraverso il proprio atto di guardare, avrà il potere di determinare la natura del protagonista (interpretazione di John Hurt che lo porterà alla nomination agli Oscar), prima considerato mostro, poi dandy e infine quasi eroe.

La vita del protagonista diventa così una vita da palcoscenico («all the world’s a stage» dice Shakespeare), osservabile da una finestra che si apre da una parte sul mondo fittizio, quello del film e del cinema, e dall’altra sul mondo vero, il nostro.

Un palcoscenico che è presente in tante forme anche nel film successivo: Persona, scritto e diretto dal regista svedese Ingmar Bergman nel 1966 e considerato uno dei prodotti stilisticamente più sperimentali del regista.

La dimensione teatrale ha, in questo caso, vari rimandi: dal titolo stesso (in latino la locuzione Dramatis persona indica la maschera che gli attori indossavano nel teatro latino) alla figura di una delle due protagoniste – Elisabeth (Liv Ullmann) – attrice teatrale che ad un certo punto della sua vita, decide di non parlare più.

La decisione dirigerà l’attenzione della cinepresa, e quindi dell’occhio dello spettatore, a concentrarsi solo sullo sguardo della donna.

È però uno sguardo che acquisisce la parola attraverso un’altra figura, un’altra donna – Alma (Bibi Andersson) – che lo utilizzerà non più indirizzandolo verso l’esterno, verso il mondo visto dal palcoscenico, ma verso l’interno.

Alma approderà così ad una confessione e ad una riflessione su se stessa, che porterà alla quasi totale identificazione delle due donne e quindi dei due modi di osservare (famosa la sequenza dei due volti delle protagoniste che si accostano e si fondono arrivando ad un annullamento quasi totale delle caratteristiche somatiche di ciascuna).

Chiude la rassegna A Ghost Story (Storia di un fantasma) scritto e diretto da David Lowery e uscito nel 2017.

Anche in questo caso siamo di fronte ad una riflessione che il regista compie sull’elemento cinema, inteso come medium che permette la visione di un mondo questa volta invisibile.

Se in The Elephan Man il cinema permetteva di riflettere sull’atto di guardare da parte degli spettatori se stessi, in A Ghost Story il dispositivo permette di andare addirittura oltre, dando così la possibilità di osservare un mondo invisibile, che si fa a sua volta sguardo attraverso la figura del protagonista.

Non a caso gli unici fori nel lenzuolo del fantasma, i quali sono in grado di creare un legame tra mondo sensibile e mondo invisibile, sono all’altezza degli occhi come il telo che copriva il volto a John Merrick all’inizio del film.

Personaggio, quello del fantasma, che potrebbe essere accomunato a Elisabeth (Persona), il quale possiede una visuale muta che però questa volta non ha bisogno di nessun individuo esterno per potersi osservare e ‘conoscere’, ma solo se stesso.

Attraverso il suo osservare – e osservarsi – il film si compie, proseguendo in una narrazione che è quasi esclusivamente fatta di silenzi, interrotti a volte dalla musica e pochissimo da dialoghi, e da lunghi piano sequenza che permettono al fantasma di osservare la scena, a noi di osservare il fantasma e, attraverso i suoi fori – occhi, lo svolgersi della vita, in un gioco di sguardi vorticoso e a volte disorientante.

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